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Il mondo in cui viviamo. 1.

E' ormai molto difficile descrivere il mondo in cui viviamo. Interagiamo con esso attraverso i nostri sensi, che ci pongono in relazione con quanto c'è, o appare, all'esterno di noi. Ma vediamo bene. Abbiamo una vasta gamma di interazioni che vanno da quelle di prossimità via via a quelle in cui la lontananza dai fenomeni aumenta gradualmente, fino a rarefarsi completamente. Tali interazioni, comunque, non sono completamente oggettive, nel senso che non si può mai dire quale sia il confine tra noi e l'esterno a noi: vengono cioè sempre mascherate da come noi vediamo il mondo, dato che i nostri strumenti sono compenetrati col nostro io e si sono col tempo modificati in base alla nostra storia ed alla nostra esperienza. Spesso dimentichiamo o sottovalutiamo questo, ed è un grande errore.

Quindi ognuno si vive il proprio rapporto con gli altri e con le cose in modo diverso e tale fenomeno sta peggiorando, portando a quello che chiamerei "anarchia sensoriale". Non esistono più parametri condivisi e strumenti di misura oggettivi. Tutto sta in una nube di incertezza, peggio, molto peggio dell'indeterminazione quantistica. Non c'è alcun collasso della funzione d'onda, nessuno autostato. Tutto è avvolto da una coltre di opaca indeterminazione. Un senso di solitudine ci avvolge, assieme alla sensazione di non poter fare nulla per modificare le cose. E' la nostra società implode, sparisce come tale diventando solo l'insieme di individualità isolate scarsamente interagenti, una sorta di materia oscura sociale.

La causa di tutto ciò è dovuta, lo dico in modo tranchant, allo sviluppo iper individualista del nostro mondo, che vive la più totale schizofrenia tra il suo essere globalizzato ed in realtà completamente atomizzato. Più si allarga, più rincula. La globalizzazione è gestita da entità estranee, aliene, che persegue interessi propri ed avulsi da quelli collettivi. Vive in un suo spazio che assume caratteristiche di intangibilità, fino al punto di sembrare non esistere. Invece è terribilmente incombente, progettando scientificamente l'atomizzazione del resto del modo da lui dominato.

Lo fa in vari modi: con l'economia, concentrando la ricchezza in sempre meno persone; con la politica, determinando l'assetto degli stati in modo antidemocratico, oscurantista; con le tecnologie, trasformando internet in un luogo delirante e solipsistico oppure imponendo dispositivi come gli smartphone che ognuno usa come un'ancora contro la reale condivisione.

In questo quadro non mi meraviglia più che il terrorismo diventi un brand alla stregua della coca cola, che il valore della vita sia nullo non solo in alcune aree geografiche ma anche qui da noi, nel mondo civilizzato, nella vecchia Europa.

L'unico effetto di tutto ciò è generare mostri.

 

 

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Napoli, città quantistica

napoli

Se vado a Milano, a Roma, in qualsiasi altro posto, so grosso modo cosa mi aspetta. la rappresentazione che ho di questi luoghi si discosta poco da ciò che troverò e, se troverò qualcosa di diverso, lo saprò inquadrare rapidamente in uno schema. Questi luoghi sono classici: esistono indipendentemente da me e posso sperimentare su di essi altrerandone le caratteristiche in modo controllato. Possono anche sopraffarmi, ma sono sempre diversi e separati da me.

Napoli non è così. L'atto di osserverla la rende reale ed è reale per me in modo diverso da come è reale per un altro. Ogni istante essa cambia e cambia il modo con cui mi rapporto ad essa. Non c'è modo, anzi è inutile ed illusorio averne una rappresentazione astratta. Essa colliderà con ciò che sperimento, rendendola sempre diversa.

Napoli è una nostra costruzione, o meglio, rinasce da come la osserviamo. Per questo affascina, per questo è unica. E' un luogo quantistico. A fianco vediamo delle tavole di Moebius che in qualche modo rappresentano questa unicità.

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Nemmeno un buco nero ci "cancellerà"

Sempre della serie UNIVERSO OLOGRAFICO

12 luglio 2016, da http://www.unipd.it/ilbo/nemmeno-buco-nero-ci-cancellera

Non esistono «censori cosmici». Non esistono cassini in grado di cancellare per sempre l’informazione dalla grande lavagna dell’universo. Neppure i buchi neri, gli oggetti cosmici più feroci che conosciamo, i candidati più autorevoli al ruolo di «cosmic eraser», di censore cosmico appunto, riescono a fare tanto. 

È questo che afferma Stephen Hawking, 74 anni, fisico teorico che ha occupato quella cattedra lucasiana di matematica a Cambridge che fu di Isaac Newton, a commento di un articolo che egli stesso e due suoi colleghi, Andy Strominger e Malcolm Perry, hanno pubblicato a giugno sulle Physical Review Letters.

Stephen Hawking è forse il fisico più conosciuto al mondo: una “pop icon”, come lo ha definito di recente The New York Times. Un’icona della scienza la cui popolarità è seconda, forse, solo a quella di Albert Einstein e che è dovuta alla sua bravura, indiscussa. Ma anche al fatto di aver scritto trent’anni fa o giù di lì un libro, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, diventato un best seller mondiale, come raramente capita ai libri di cultura scientifica. E al fatto di essere una sorta di miracolo della medicina: giunto a 74 anni, sia pure paralizzato su una sedia a rotelle e potendo parlare solo attraverso la voce artificiale di un computer, ma resistendo agli attacchi di una malattia, la sclerosi amiotrofica laterale, che prima di lui si pensava uccidesse sempre agli inizi  dell’età giovanile. 

Numerosi film sono stati dedicati a Hawking, molti di grande successo. Da ultimo, La teoria del tutto, di James Marsh, dove a incarnare il suo personaggio è Eddie Redmayne, che per questa interpretazione ha vinto l’Oscar.

Tutto questo fa sì che con Stephen Hawking il semplice annuncio di una notizia faccia notizia. Per tutto questo da almeno quarant’anni anche i giornali generalisti propongono al grande pubblico, spesso in prima pagina, la “nuova teoria sui buchi neri” del grande fisico teorico inglese. 

Ma cosa sono i buchi neri? E cosa hanno detto Hawking, Strominger e Perry nel loro ultimo articolo? Vale la pena cercare di rispondere a queste domande. E non solo perché i buchi neri, per ragioni diverse, sono oggetti che catturano l’attenzione e l’immaginazione sia dei fisici che del grande pubblico. Ma anche perché il comportamento dei buchi neri ha grosse implicazioni sulla conoscenza e sul destino dell’intero universo. Lungo l’orizzonte degli eventi di quei mostri cosmici si concentrano, infatti, molte questioni rilevanti e problemi irrisolti della fisica: dalla difficoltà di unificare meccanica quantistica e relatività generale alla validità del primo principio della termodinamica, secondo cui l’energia e, quindi, l’informazione dell’universo sono costanti.

  I buchi neri sono i figli naturali della relatività generale. Nel senso che sono previsti dalla grande teoria elaborata cento anni fa da Albert Einstein. Si trattata, infatti, di oggetti dotati di una forza di gravità così grande da riuscire a curvare lo spaziotempo fino a farlo chiudere su se stesso. In altri termini sono pozzi gravitazionali che inghiottono tutto e non lasciano scappare via da sé nulla, neppure la luce. Di qui il nome, buchi neri. 

Proprio a causa di questa loro peculiare e tragica caratteristica, l’essere per definizione non visibili, i buchi neri sono stati per lungo tempo oggetti virtuali. Previsti dalla teoria fondamentale della fisica, nessuno poteva osservarli. Da un paio di decenni, tuttavia, gli astrofisici hanno iniziato a individuarli in maniera chiara anche se indiretta, “pesando” i loro tremendi effetti sull’ambiente che li circonda. Grazie poi a una serie di potenti strumenti collocati nello spazio, è stato possibile infatti individuare la presenza di buchi neri giganti (con una massa pari a centinaia di milioni di volte quella del nostro Sole) al centro della Via Lattea e in molti luoghi dell’universo, “ascoltando” il lancinante lamento che la materia si lascia sfuggire, sotto forma di raggi X caratteristici, mentre sta per cadere in uno di quei pozzi gravitazionali e scomparire “per sempre” dal nostro universo.

Il riferimento all’eternità lo mettiamo tra virgolette, perché dopo aver pensato a lungo il contrario, ora Hawking sostiene che neppure in un buco nero esiste il “per sempre”. Tutto, anche quel pozzo gravitazionale ha una storia. E la conserva.

Tra i grandi meriti del fisico inglese (e del suo amico e collega, Roger Penrose), c’è stato quello di aver dimostrato, una quarantina di anni fa, che in fondo quel “per sempre” non è poi così definitivo. E che i buchi neri non sono, poi, così neri.

Ma è meglio procedere con ordine. E ricordare come Hawking e Penrose abbiano dimostrato che, in un buco nero come nell’intero universo, la relatività generale è costretta a rinnegare se stessa. Nell’ambito della teoria di Einstein, infatti, non è possibile sfuggire al paradosso della “singolarità”. Precipitando senza fine su se stessa, infatti, la materia in un buco nero continua a piegare lo spaziotempo fino a fargli raggiungere una curvatura infinita. Detta in altri termini il cuore di un buco nero è un punticino in cui la densità, la pressione e la temperatura raggiungono valori, appunto, infiniti. Un punticino, quindi, previsto dalla fisica che non può essere descritto dalla fisica. 

È la meccanica quantistica che deve intervenire per salvare la fisica da questo paradosso. Quando, infatti, la curvatura dello spaziotempo è molto elevata, entrano in gioco le proprietà quantistiche a impedire la singolarità. Il guaio è che a tutt’oggi nessuno ha risolto il problema di come conciliare le due grandi teorie fondamentali della fisica elaborando una “Teoria del Tutto”. Non sappiamo ancora come le proprietà quantistiche della materia e dell’energia riescano ad evitare che un buco nero si trasformi in una singolarità. Fatto è, però, che lo studio teorico dei buchi neri ha reso più attuale che mai il progetto di Einstein: l’unificazione della fisica.

Hawking, che è un allievo di Denis Sciama, si è innamorato fin da giovanissimo dei buchi neri e ha avuto il grande merito di coltivare con determinazione questi suoi primi interessi, concentrandosi, in particolare, sulla linea di confine tra ciascuno di questi pozzi gravitazionali e il resto dell’universo. Per scoprire, verso la metà degli anni ’70 dello scorso secolo, che un buco nero non è poi così nero. E che quegli oscuri e onnivori oggetti, proprio a causa della meccanica quantistica, “evaporano”. Perdono materia ed energia. Il principio di indeterminazione della meccanica quantistica, infatti, si applica anche sulla linea di confine di un buco nero. E poiché tra le specialità del principio elaborato da Heisenberg vi è quello di scavare tunnel sotto qualsiasi ostacolo per quanto insormontabile, ecco che la meccanica quantistica scava dei tunnel che consentono alla materia/energia di «uscire» da ciò da cui, per definizione, non potrebbe uscire. Di scappare via da un buco nero. Il modo teorizzato da Hawking fa ricorso alle proprietà del vuoto quantistico, che non è così vuoto come quello classico. Brulica, infatti, di coppie di particelle virtuali, una di materia e l’altra di antimateria, che si formano per sparire subito dopo. Se una di queste coppie si forma lungo il confine degli eventi, può succedere che una particella di materia riesca a sottrarsi all’attrazione del buco nero, mentre quella di antimateria vi precipita dentro, scontrandosi con una qualche altra particelle di materia e annichilendosi. L’effetto netto è, appunto, l’evaporazione: il buco nero è più leggero e l’ambiente circostante si è arricchito.

La scoperta (teorica) di questa “radiazione di Hawking” ha due implicazioni. Una riguarda il destino dell’universo. L’altra quello dell’informazione. La prima implicazione consiste nel fatto che c’è un futuro cosmico fuori da un buco nero. Nel futuro remoto, anzi, se l’universo continuerà a espandersi tutti i buchi neri evaporeranno e l’intera materia/energia cosmica esisterà in uno spaziotempo estremamente rarefatto ma fuori da quegli orribili pozzi di gravità.

L’altra implicazione ci riporta in un paradosso. Quando evapora da un buco nero, la materia/energia perde ogni informazione sul suo stato precedente. Cosicché un buco nero, ormai non più così nero, si comporta come un censore cosmico. Inghiotte e restituisce materia/energia. Ma inghiotte informazione senza poterla restituire. L’informazione è cancellata per sempre. Dall’istante in cui finiremo in un buco nero di noi l’universo perderà ogni traccia. E ciò è difficile da accettare, sia pure per ragioni diverse, sia da noi, ingenui non esperti, sia dai fisici più esperti. Se per noi la perdita di ogni nostra sia pur tenue traccia è uno scenario da incubo, per i fisici è un paradosso che non può essere spiegato con le leggi note della fisica.

Da una decina di anni, Hawking è alla ricerca di una strada per risolvere il “paradosso dei buchi neri”. E ora sembra averla trovata. Secondo quanto ha scritto con Malcom Perry e Andrew Strominger, infatti, l’informazione trasportata da un qualsiasi oggetto cosmico è mantenuta parzialmente sotto forma di particelle a due dimensioni che si fermano sull’orizzonte degli eventi. 

Diceva John Archibald Wheeler, uno dei pionieri di questi studi, che “i buchi neri non hanno capelli”. Sono, appunto, del tutto neri. Seguendo un’idea di Strominger, ora Hawking sostiene che i buchi neri invece i capelli li hanno: si tratta di “soft hair”, di peli soffici. In particolare, quando una particella carica entra in un buco nero aggiunge un fotone all’orizzonte degli eventi. Questo è un “soffice capello”. Ebbene, secondo Hawking, Strominger e Perry questi “capelli” possono essere osservati pur essendo molto piccoli e privi di massa. I “soft hair” consentono al buco nero di conservare la stessa energia ma di variare il suo momento angolare. Misurando questa variazione sarebbe possibile risalire alla storia che l’ha determinata. E, dunque, recuperare l’informazione. 

Se ci è concesso tradurre ulteriormente il gergo fisico-matematico in linguaggio comune, possiamo dire che alcune particelle quando precipitano in un buco nero lasciano un’impronta sull’orizzonte degli eventi. In questo modo l’informazione, sia pure in maniera confusa, può sopravvivere all’orrido pasto e tornare indietro con la “radiazione di Hawking” senza violare né la relatività generale, né la meccanica quantistica, né la legge di conservazione dell’energia. 

Inutile dire che, finora, nulla di tutto questo è stato osservato. Ma se Hawking dovesse avere ancora una volta ragione, allora ci saranno implicazioni cosmologiche profonde. Potremo, per esempio, cercare in giro per quel buco nero che è il nostro universo tracce di altri universi/buchi neri. Magari di quell’universo che, dicono alcuni, ha preceduto il nostro nel viaggio senza fine della materia/energia dall’eternità all’eternità.

Ma per concludere, è meglio lasciargli la parola. “Abbiamo scoperto che non ci sono quelle “prigioni eterne” che una volta pensavamo dovessero esserci”», ha dichiarato a The New York Times. “Se un giorno cadrete in un buco nero e vi sentirete intrappolati, ebbene sappiate che c’è una via per uscire”. Tutto sta a trovarla.

Pietro Greco

 
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Vedere da vicino e da lontano.

L'evento Dolce e Gabbana, cosi come quello più in sordina di Costa crociere a Capodimonte, mi portano a fare varie considerazioni riguardo all'atteggiamento dei miei contatti.
Si sono divaricati tra chi li ha amati e chi li ha odiati.
Sembra essere mancato del tutto, ma è tipico dei social, una visione ponderata e riflessiva. Tutti a scatenarsi di pancia, spesso ammantata di dotti riferimenti ideologici caratteristici del livello culturale degli scriventi. E' un bel fenomeno questo, la pancia che si fodera di cervello. Molto meglio essere di pancia o di cervello separatamente. Nel primo caso post luddisti ed a tratti paraomofobi, nel secondo dottrinariamente marxisti-leninisti.
Ma quelli più interessanti sono quelli a cui accennavo, il mix.
La prima cosa che mi viene da pensare è l'ipocrisia e una sorta di nevrotica invidia. L'ipocrisia è legata al fatto che viene contestata a D&G sia la visione pizza&mandolino che il fatto che i loro abiti sono fatti da bambini schiavi.
Non si pensa, o meglio si trascura, che chi scrive i post, qualunque post, lo fa comodamente da casa propria usando tecnologie realizzate in posti in cui lo sfruttamento è animalesco. La Apple in Cina ha dovuto mettere delle reti per impedire agli operai di morire buttandosi dalle finestre. Le nostre mutande, calzini, scarpe, pantaloni e magliette, sono fatte da bambini schiavi. le lampade che ci illuminano anche. Allora se vogliamo essere coerenti dovremmo rinunciare a usare i social o andare nudi. Quindi contestare a D&G questo fatto è sintomo di perbenistica piccolo borghese ipocrisia.
Allontaniamo il punto di vista.
Napoli è una novità, tra mille contraddizioni, dal punto di vista politico. Non è un caso che i giornalacci nazionali tendano a minimizzarne il suo ruolo. Ben vengano quindi che D&G o Givenchy l'abbiano scenlta come passerella. L'iconografia pizza-mandolino qualunque esperto di comunicazione la smonta subito. Una cosa è il messaggio, un'altra il metamessaggio. All'estero Napoli è vista come luogo mitico e attraente in modo intimo. Gli stanieri attraverso la metafora pizza-mandolino intavedono ul luogo dell'anima. Oltretutto le ricadute economiche potrebbero essere enormi, passando dal 30% di strutture libere, all'overbooking, sintomo di ripresa economica. Un museo ha successo se ha due ore di fila, non un turista ogni dieci minuti.
Ultima annotazione, molto delicata. Artisti, fotografi, operatori culturali, non tutti, ovviamente, hanno odiato questa kermesse perchè si sono sentiti esclusi, hanno visto la loro attività resa vana, inutile, incompresa da due cafoni kitch. Non si chiedono mai come mai non hanno mai inciso veramente nel tessuto culturale della città. Geni incompresi. Dovrebbero comprendere che una espansione dell'economia napoletana è una grande opportunità, non una jattura.

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Le (nuove?) dimensioni della politica

tredSi rifletteva in un precedente articolo sulla bidimensionalità della politica, cioè sulla coniugazione alto/basso rispetto a qualla più tradizionale destra/sinistra. Questo per determinare, se possibile, le cause della crisi delle vecchie categorie, che hanno dimostrato una profonda incapacità di incidere nella realtà attuale.

Un'osservazione che mi è stata fatta è che forse è necessario un nuovo asse. Riflettendo su quanto è successo in Inghilterra  e, in generale sui populismi che incalzano in tutta Europa, un'ipotesi possibile è porre sul terzo asse un parametro fino ad ora trascurato: la distanza centro-periferie.

La definizione di periferie, volutamente al plurale, è non solo geometrica ma anche culturale. Attiene sia a chi sta lontano dai centri abitati, che coincidono spesso con i luoghi dove è maggiore lo scambio culturale, la comunicazione individuale ed i servizi, ma anche a chi, pur essendo fisicamente nei centri abitati, è escluso da ll'interazione col prossimo.

La politica tradizionale , in altre parole, già trova difficoltà sul piano cartesiano destra/sinistra-alto/basso. L'analisi della realtà ha ancora però dei metodi, direi standard, gestibili, se sto a distanza 0 dal centro. Ma appena ci si muove sul terzo asse, la prospettiva, il punto di vista, incomincia a cambiare. Le categorie precedenti si avvolgono di una nube, un campo, che rende sempre di più opache queste categorie. E' una sorta di campo di Higgs della politica. Essa acquista senso se mi avvicino, si rarefà sempre di più se mi allontano.

La colpa, meglio dire la genesi di questo fenomeno è da imputarsi, come ormai sempre, ai processi di globalizzazione e di svaporamento dei nemici diretti. Sono spariti i luoghi immediati di conflitto, con c'è più il latifondista cattivone, il padrone in carne ed ossa, c'è solo una rappresentazione televisiva e digitale dei conflitti, strumentalizzati per generare ansia, depressione, ineluttabilità dello star male. Ma non basta. In Europa gli stati e la UE fanno in modo che la canna del gas sia sempre ad una certa distanza di sicurezza, altrimenti non si spiegherebbe, tranne in pochi casi, come mai non si sia a sparare in mezzo alla strada. Le politiche comunitarie sono tutte incentrate nel rendere i popoli schiavi ma ancora con un tozzo di pane o con uno smartphone di ultima generazione, drogati in una matrice senza alcun grado di libertà.

Questo ha dei risvolti inquietanti nella vita civile: svuola la libertà, la democrazia di qualunque significato, ed aumenta tale svuotamento man mano che mi allontano dal centro. Rimpiango quando esistevano le sezioni dei partiti in ogni quartiere. Luoghi dove imparavi e praticavi la democrazia. Si litigava, si bestemmiava, si stringevano alleanza, si disegnava un futuro possibile. Non solo. La desertificazione delle periferie, senza fabbriche, senza cinema, in cui ognuno  ha solo tv e una internet ormai dominio del neo liberismo ma smerciata come luogo di libertà e democrazia,  ha portato oggettivamente al fraintendimento di ogni consapevolezza democratica. Non sai per cosa, chi o perchè voterai; sai solo quello che la televisione ti ha fatto credere o il rumore di fondo dei social network ti ha scosso nelle viscere.

Ovviamente non sto affatto teorizzando, come stoltamente fa qualcuno, anche a sinistra, che vada rivisto il diritto di voto sul terzo asse. sto solo dicendo che occorre un processo profondo di rinormalizzazione della nostra società, per rendere la democrazia inveriante per trasformazione di gauge, come direbbe il fisico che sta in me.

 

 

 

 

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