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L'eterna giostra

beni comuni 1Non so da dove cominciare. Forse dalla domanda fondamentale (per me, per lo meno): perchè viviamo?
Siamo il risultato dell'evoluzione delle specie viventi. Quello che forse ci contraddistingue è la capacità di modificare il mondo usando non solo noi, ma il mondo stesso, ciò che non fanno, se non in modo molto semplice e limitato, altre specie. Costruiamo cose, usiamo cose, e, soprattutto, costruiamo teorie e modelli del mondo.
Ci dotiamo di una serie di interfacce verso l'ambiente esterno a noi. Sono necessarie per mediare il nostro modo di interagire, che altrimenti sarebbe identico a quello degli animali o delle piante, proprio per la nostra capacità di elaborare modelli astratti. Quindi i nostri processi "standard" si basano sulla catena uomo-modello-decisioni-attuazioni, in un loop senza fine, nel senso che ciò che facciamo ci riposta sempre all'inizio, avendo modificato le condizioni di partenza.
Abbiamo elaborato nel tempo una complessa relazione con ciò che ci circonda: noi con noi , noi con la natura. E la nostra storia è la storia di questo equilibrio strano tra noi con noi stessi, noi con gli altri come noi, noi con la natura in cui viviamo.. Dobbiamo co-esistere con questi tre livelli di equilibrio.

Nella nostra storia ci siamo sforzati di lavorare per l'elaborazione di sistemi o techiche per affontare i tre equilibri e, pragmatici come siamo, abbiamo ridotto la complessità segmentando tali equilibri, cioè affrontandoli da soli o al massimo due alla volta. Tale pragmaticità ha anche un nome: riduzionismo. Pigliare una cosa e strudiarla per parti, supponendo tutto più semplice, poi, mettendole assieme, spiegare come funziona il tutto. Abbiamo inventato la psicanalisi (rapporto dell'io con l'io), la politica (rapporto tra gli esseri umani), l'ecologia, la fisica (rapporto tra gli umani e la natura). Trasversalmente abbiamo elaborato una serie di metodiche, linguaggi e processi per rendere il più possibilmente chiari e non equivoci gli scambi di informazioni: il metodo scientifico.

Qualche parola, con l'accetta, per i tre equilibri.

- la psicanalisi.
Con Freud, Jung, Adler alla fine dell'800 ed altri è stata studiata la nostra mente, pervenendo a una profonda analisi della sua struttura e delle sue malattie. L'aver disaggregato in io, es e superio la nostra mente, ha portato, secondo me, ad un primo approccio sull'importanza delle interazioni sociali nelle nostra formazione e nei nostri eventuali malesseri. Dà per scontato l'es, come mente ancestrale, che assieme al superes, frutto delle nostre interazioni sociali (da familiari ad allargate), determinano dinamicamente il nostro io. Il limite è che il superio è visto come rapporto con altri singoli, non visti come una società o un aggregato. Affiora, cioè il fenomeno delle variazioni di fase, il fatto cioè che i gruppi sociali, le società, hanno problematiche che non sono solo il frutto di sommatorie aritmetiche, ma hanno e danno problematiche nuove ed originali. Marcuse a metà 1900 cercò di approfondire questo fenomeno, affrontando, prima in eros e civiltà e poi nell'uomo ad una dimensione, cosa siamo in una società come la nostra. Si poneva il problema di affrontare due livelli di equilibrio. Già è uno sviluppo notevole.

- la politica.
Lo sviluppo dell'umanità nel suo complesso è segnato dalle sue strutture organizzative. Che si sono evolute dal branco, alle tribù, via via a strutturazioni sempre più complesse, che hanno anche elaborato i sistemi di scambio di valori e cose tra i suoi componenti. Ogni passaggio tra uno stadio all'altro è stato un passo in avanti, diminuendo storture ma introducendone altre. L'attuale fase è contraddistinta dal culmine del modello prevalente, quello capitalistico. Esso si è quasi totalmente finanziarizzato nel senso che preferisce la produzione di ricchezza dalla ricchezza stessa e non dalla produzione di beni. Il modello opposto, Il socialismo o il comunismo, hanno cercato di far tesoro delle premonizioni di Marx ed Engels, con alterno successo, devo dire. I motivi di tale fatto possono essere molteplici: accettare anche inconsciamente alcuni aspetti di quello capitalistico (ad es. il produttivismo , l'ambiente) ma anche disinteressarsi del primo equilibrio, cioè dell'uomo in quanto tale. Altro motivo di crisi di questo modello è che si è andato sviluppando in un sistema non isolato, nè isolabile: stati socialisti circondati da stati capitalisti, che scambiavano flussi di merci, persone ed ideologie. L'illusione che una buona proposta politica sia di per sè una buona proposta umana è una mera illusione. La politica viaggia con le persone, che la incarnano e quindi la determinano. In definitiva la politica, tutta, non tenendo conto delle singole persone e sfruttando l'ambiente come fonte infinita da cui trarre ricchezza, sta rivelando tutti i suoi limiti attuali.

- l'ambiente.
Le attività antropiche, cioè la presenza sempre più invadente dell'uomo nell'ambiente naturale, hanno portato l'ecosistema quasi al collasso. Già sappiamo che un sistema complesso lontano dal suo equilibrio si può riorganizzare in cluster, aggregati, che si autorganizzano, a scapito di quelli adiacenti. In più sappiamo anche che l'evoluzione di un sistema naturale è ben descritto dal darwinismo, che ci dà indicazione di quali specie possono prevalere sulle altre. Ciò in qualche modo spiega come il pianeta si "ribelli" ogni tanto, mettendo a dura prova la società umana.  E ci dice pure un'altra cosa: che ormai l'ambiente non è più una condizione al contorno, un serbatoio inesauribile di risorse e quindi spetta alla politica intervenire per salvare se stessa. Per salvare l'umanità, per salvare i singoli esseri.

Detto questo, mi pongo il problema di cosa sia "fondamentale" e cosa sia "emergente", mutuando due concetti dalla fisica. Per esempio, fondamentale è l'energia ma siccome non riesco ad inseguire l'energia di ogni singolo costituente della materia, invento il concetto di temperatura, che è una sorta di grande media delle singole energie. E' una grandezza che esprime i limiti della nostra conoscenza del mondo microscopico, ma è comoda da usare. E' una grandezza che emerge dalla nostra ignoranza. Addirittura ora, agli estremi confini della fisica, c'è dibattito di cosa sia emergente, tra spazio e tempo. Alcuni, come Rovelli, pensano che lo spazio quantizzato sia fondamentele, ed il tempo emergente, Smolin invece l'opposto!

Per me fondamentali sono i beni comuni, emergente tutto il resto. Ora dobbiamo definire cosa intendiamo per beni comuni. Inizio con una provocazione. Il lavoro non è un bene comune. E' emergente nello stabilire e regolare il nostro rapporto con gli altri, ma non necessariamente a determinare se siamo felici o ci sentiamo bene. Ecco, il bene comune è stare bene con se stessi, con gli altri e l'ambiente. Abbiamo sviluppato tutte queste nostre relazioni con  una serie di attività che che hanno reso possibile il controllo e lo sviluppo della società umana nel suo complesso. Alcune di queste sono gratuite, ad altre è stato attribuito un valore, cioè sono retribuite in vario modo. Il valore delle attività umane non è un fatto statico ed assoluto, ma dipendente da vari fattori come il tempo, il tempo della storia umana, e dai rapporti tra chi esegue l'attività e chi paga questa attività. In altre parole, il lavoro ed il suo valore dipendono dalla struttura sociale e dal suo rapporto col mondo esterno. Non per nulla abbiamo una enorme quantità di filosofi, economisti, sociologi che si sono occupati di questo fatto, dagli albori della storia fino ad ora. La situazione attuale è che il lavoro è, per dirla con Marx, un lavoro alienato, in cui colui che lo fa non è proprietario dei propri strumenti di produzione, (se non forse le prostitute!) e la retribuzione conseguente è solo parte del valore creato. Cioè c'è qualcun altro che si appropria della rimanente parte. Si è reso intoccabile tale modello, con i risultati estremi che oggi osserviamo deflagrare. Il lavoro è ormai assimilabile ad un gas, si comprime, espande, si diffonde. Svapora da una zona, si condensa in un'altra. Và dove costa meno, sempre meno. E aumentano sempre più i plusvalori che esso produce, cioè sempre più ricchezza a chi ne è il padrone, sempre meno a chi lo fa. Il risultato è la famigerata forbice tra chi è sempre più ricco e chi, pur lavorando, è sempre più povero. Figuriamoci poi chi il lavoro non ce la. Quindi il modello attuale è: prelievo senza fine delle risorse naturali-trasformazione di esse in cose-distribuzione di queste cose, il tutto da parte di pochi che posseggono gli strumenti per fare questo ed i molti che materialmente realizzano questo processo. Se va bene! Ed ora c'è anche il fenomeno che la ricchezza viene prodotta esportando, sostanzialmente, la povertà mediante spostamento di ricchezza tout court, attaverso la finanza globale.
La ricchezza in tal modo accumulata è un fenomeno antropicamente e planetariamente distruttivo. Il suo accaparramento implica in primis la sottrazione al nostro pianeta di risorse non più rifondibili, in base alla termodinamica, e provoca la tendenziale distruzione dell'umanità stessa, che diventa sempre più la bruta sommatoria di infelicità esistenziali.
Il mondo che io prospetto è un mondo senza lavoro alienato, senza plusvalore, senza sfruttamento capitalistico. E' invece un mondo pieno di attività liberate dal giogo dello sfruttamento.
La privatizzazione degli strumenti di produzione ha hanche dei risvolti in ambiti collaterali, in altri beni comuni: la salute e l'istruzione. E' quasi del tutto inutile, a questo punto, approfondire questi aspetti, essendo quasi ovvii. Per vivere fisicamente abbiamo disogno di acqua ed aria, che ci vengono negate o sottratte. Per fivere scientemente abbiamo bisogno di conoscere la nostra storia ed il mondo attorno a noi. E la cultura viene resa accessibile praticamente sono a poche persone, anzi sono messe in pratica metodiche sistematiche di imbarbarimento.

 

 

 

 

 

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Occorre avere misura 2. una nuova Ontologia

Qua le cose si complicano assai. L'osservato e l'osservatore non sono più separati. Non è definibile il loro confine. Non è possibile teoricamente misurare tutto ciò che voglio con la stessa precisione, anzi posso solo scoprire mezze verità. L'osservatore modifica l'osservato. L'atto della misura determina solo un possibile stato dell'osservato. In altre parole, la mia conoscenza del mondo è intrinsecamente incompleta., sono a me nascoste le reali grandezze che descivono in modo completo il fenomeno che sto osservando. per quanti sforzi faccia, sono inglobato, faccio parte dell'esperimento. Questa consapevolezza innalza il mio livello di coscienza, in mio rapporto col mondo. Non posso chiamarmi fuori, sono coinvolto in una giusta in cui sono contemporaneamente cavia e protagonista.

Nel mio articolo precedente concludevo con questa considerazione, che vorrei approfondire.
Siamo abituati ad essere "realisti" nel senso che osserviamo il mondo fuori di noi, analizziamo e giudichiamo separandolo da noi. Facciamo queste cose ovviamente con i nostri parametri e con gli strumenti che abbiamo. Tendiamo a chiamarci fuori dagli accadimenti, non ne facciamo parte, anzi li viviamo spesso come attentati a noi, al nostro equilibrio esistenziale. Il mondo esiste a prescindere se lo osserviamo, ha le sue leggi e le sue dinamiche, si evolve comunque in modi che gli sono propri. Quale è il problema?
Come ci rapportiamo con quello che c'è fuori di noi. Dipende da come gli accadimenti impattano sul nostro essere e da come interagiamo, anzi da come percepiamo l'interazione. Un possibile discrimine è la quantità e qualità dell'interazione. Se viene reputata non dirompente e dinamicamente assorbita e tale da determinare una rostra resilienza, adattabilità, continuiamo a vivere in un relativo equilibrio che, oltretutto, non altera il nostro realismo. Continuiamo cioè nel nostro stile, nelle nostre abitudini, anzi tendiamo a rafforzare le nostre convinzioni, aumenta la nostra autostima.

Ma stiamo trascurando, direi tragicamente una serie di fatti.

Il nostro mondo ormai è globalizzato. Siamo arrivati ad una fase storica, politica, economica, tecnologica ed ecologica in cui tutti questi aspetti sono interconnessi. I confini, semmai siano esistiti, crollano. Il mondo è piccolo, paradossalmente. La globalizzazione, tra tutti gli effetti che qui non discuto, ne ha uno che secondo me è quello più importante, che determina un modo nuovo di vedere, anzi stare, nel mondo. Non siamo più fuori da nulla. Non è solo il percepire, avvertire, ma lo stare, l'esserci. Osservare in modo realistico, chiamandoci fuori da ciò che percepiamo esterno a noi, è impossibile. Facciamo parte del "laboratorio". L'osservato e l'osservatore coincidono. Chiamerei questa cosa "Ontologia realistica quantistica". Mi spiego.
La meccanica quantistica è quella scienza che non distingue bene tta chi fa la misura e chi è misurato. Questo porta a rendere impossibile la completa analisi del mondo. Non voglio fare un trattato completo, non ne sarei capace. Il bello è che, pur essendo assurda in molti aspetti, funziona. Il Cern ne è la prova, l'elettronica, la chimica e la bomba atomica anche. Ha il difetto, ora come ora, di non essere realista. Presuppone cose strane: energia che sembra crearsi dal nulla, fenomeni che viaggiano a velocità infinita, tutte cose acclarate.

Io che giudico sono giudicato. Quello che faccio modifica il mondo che modifica me. Se sottovaluto questa cosa sto negando la realtà. Ed il problema, non risolto, è che tutto questo accade realmente. Siamo in presenza di una contraddizione epocale, che porterà ad un nuovo modello scientifico del mondo. Non solo, ci porterà a consideraci componente del mondo in modo intrinseco,  non più soggettivamente, ma oggettivamente . 

La mancata comprensione di questo fenomeno, che chiamerei realismo banale, spiega molte cose. Ad esempio perchè, dal punto di vista politico, c'è la crisi di quelle ideologie o correnti di pensiero storicamente progressiste. Esse sono veicolate da persone, da noi, ma la tendenza di porci ad di fuori del mondo che cerchiamo di cambiare ci ha portato a starne fuori, ad essere rigettati e respinti. Non ci siamo accorti, o spesso non abbiamo volutamente farlo, di essere come quello che c'è fuori. Da qui la credibilità, la fiducia, l'autorevolezza che sono cessate.

To be contiued...

 

 

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Occorre avere misura 1

mela tape

Discorrendo con un mio amico, riflettevamo sul fenomeno dei tamponi. Osservavo che, se in quel momento l'avessero fatto a noi, probabilmente saremmo stati positivi. O forse no. 
La storia dell'uomo, la sua evoluzione intesa come conoscenza del mondo in cui l'uomo vive ed agisce, è correlata con l'evoluzione dei metodi che ci siamo dati per conoscere il nostro mondo. Tanto più questi metodi sono conosciuti, diffusi e condivisi, tanto più avanza la nostra civiltà e migliora il nostro equilibrio con l'ambiente circostante, il palcoscenico su cui agiamo. Non è un caso che la parola misura sia ambivalente: misura come atto di determinare quanto vale una grandezza (fisica, sociale, politica, biologica) sia nel senso di participio passato, essere misurati, cioè non esser presi da isterismi o facili entusiasmi.

Misurare significa paragonare qualcosa con qualcosaltro di cui abbiamo dimestichezza e fiducia, condivisione e fiducia nella sua immutabilità. In ambito classico, newtoniano, significa avere un luogo, un "laboratorio", in cui poniamo le cose e le mettiamo in relazione con uno strumento che ne determini qualche caratteristica che reputiamo fondamentale per la sua (delle cose) comprensione. Per misurare una velocità, ad esempio, ho bisogno di un orologio e di un metro, cioè di attrezzi per misurare il tempo e lo spazio percorso. Due osservazioni importanti: la prima è che tutti sono d'accordo sul tempo e sullo spazio, la seconda è che devo usare la matematica per correlare gli strumenti che uso. Se i misuratori cioè hanno la stessa concezione di cosa sono i secondi, i metri e come usare la matematica, siamo a cavallo. le misure saranno ritenute corrette e condivisibili. Ma c'è un altro aspetto sottile, sottinteso. Che ci sia separazione tra chi fa la misura e l'oggetto e che la misura non altera in alcun modo l'oggetto. Questo, pomposamente, chiamiamo il paradigma newtoniano.

Da questo punto di vista, i recenti fenomeni legati al coronavirus ci insegnano molto, e, in questa fase, direi troppo, nel senso che non siamo pronti per reggere l'urto di tale massiccia dose di misure.pur doverosa. Stiamo scoprendo che una campagna molto estesa di tamponi scopre sempre nuovi contagiati, mentre prima era solo una influenza stagionale, lieve o grave non importa. Ne misuriamo estensione, velocità di contagio, mortalità, guarigioni per fascie geografiche, di età e quant'altro. ne misuriamo anche l'impatto sull'economia, sulle abitudini, sull'ambiente e tutto ciò, disvelando scientificamente questo fenomeno, ci sgomenta, avendo vissuto fino ad ora, fondamentalmente, in modo qualitativo. I numeri fanno paura perchè mostrano la nostra ignoranza, ci fanno svegliare da un luogo di sogni ed illusioni. Pongono un discrimine, dei limiti alla nosta pretesa onnipotenza. E svelano anche cause e possibili rimedi, su cui non voglio soffermarmi.

Gli "ismi" sono sempre sinonimo di mancanza di informazione scientifica. Questa desinenza esprime l'atteggiamento irrazionale verso un fenomeno. Ad esempio allarme ed allarmismo. L'allarme è il sano attegiamento verso un qualcosa di temuto ma misurato ed analizzato, l'allarmismo è usare l'ignoranza, la paura dello sconosciuto per altri fini, come dominio, sottomissione, repressione. L'allarmismo genera isterismo. L'allarme genera forza e consapevolezza.

Ora, non vorrei che la conoscenza newtoniana di questo fenomeno, e qui, perdonatemi, me ve vado per la tangente, stesse facendo un salto di qualità, passando dalla misura classica a quella quantistica.

Qua le cose si complicano assai. L'osservato e l'osservatore non sono più separati. Non è definibile il loro confine. Non è possibile teoricamente misurare tutto ciò che voglio con la stessa precisione, anzi posso solo scoprire mezze verità. L'osservatore modifica l'osservato. L'atto della misura determina solo un possibile stato dell'osservato. In altre parole, la mia conoscenza del mondo è intrinsecamente incompleta., sono a me nascoste le reali grandezze che descivono in modo completo il fenomeno che sto osservando. per quanti sforzi faccia, sono inglobato, faccio parte dell'esperimento. Questa consapevolezza innalza il mio livello di coscienza, in mio rapporto col mondo. Non posso chiamarmi fuori, sono coinvolto in una giusta in cui sono contemporaneamente cavia e protagonista.

To be continued.

 

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Intervento immaginario ad un'assemblea

ambigua immagine

Cari Compagni, senza asterischi, chiocciole o perifrasi, voglio parlarvi di ambiguità,credibilità,senso comune e sentimenti. Lungi da me qualunque dotta analisi di fase, di inclite citazioni o di riferimenti a questo e a quello. Parlo di me. Sono il primo che ha fatto della sua vita un palcoscenico in cui potevo sfoggiare la mia ambiguità, spesso spacciata per altro, forse a causa della mia capacità dialettica o della superficialità degli interlocutori. Talvolta però era ben compresa, ma lasciavo perdere per motivi statistici. Gli abitanti del pianeta sono tanti. 

L'ambiguità è una caratteristica tipica del linguaggio umano ed è un fenomeno molto complesso. Partendo dalla scrittura, essa è intrinsecamente ambigua. ogni cosa che scriviamo può essere intesa in modi differenti ed è per questo che abbiamo disperatamente cercato mezzi per ridurne o addirittura azzerarne le sue imprecisioni. Abbiamo inventato linguaggi formali, la logica, abbiamo fatto congressi di matematica, i matematici sono impazziti per questo, sancendo l'impossibilità teorica di essere non ambigui. Poi c'è la rappresentazione orale della comunicazione, in cui oltre alle parole dette, che ricadono grosso modo nel caso precedente, c'è il linguaggio del corpo che arrichisce il contenuto del messaggio. Ciò che si sta dicendo è un tuttuno col modo in cui lo si sta dicendo. L'ascoltatore ne fa, consciamente o meno, una sintesi, un "integrale". Qui è necessario fare una distinzione: se conosciamo o meno l'interlocutore. Ma anche il conoscere non è oggettivo, dipende da come l'ascoltatore ha realizzato la sua gabbia mentale di parametri conoscitivi. Faccio un esempio partendo dai miei interessi. Ascoltare una conferenza di un fisico famoso. Se non lo conosci, vedrai spesso una persona trasandata, con i sandali ed una maglietta non stirata dire cose complicate con un'aria ultra chic. Penserai che quello che dice non necessita di giacca e cravatta, dato che l'eleganza sta in quello che dice, che corrisponde a quello che fa. Ecco, lui le cose che dice le ha fatte ed usa un linguaggio adatto, mutuato dalla logica matematica. E' credibile in senso stretto ma non è scevro da ambiguità, cerca solo di minimizzarla o di renderla esplicità. E', insomma onesto. Vedi in lui un uomo che non cerca di fotterti, in quanto il fotterti sarebbe controproducente anche per lui. Con i politici il discorso cambia. Quello che dicono, scrivono o fanno fa parte di un continuum spazio temporale. Sono punti di un tracciato. La loro credibilità sta nell'integrale generale che somma, riassume la loro storia nel tempo. Non basta aver detto l'ultima cosa giusta. Per noi che ascoltiamo ora un politico non ha senso dire ha ragione o torto ora, o meglio, dirlo vuol dire usare strumenti non politici, usare il sentimento o "la pancia". Se non si ha conoscenza del politico in questione, o, che è lo stesso, non si ha memoria sel suo integrale, la sommatoria dei giudizi di pancia porta a comportamenti irrazionali, storicamenti prodromi di avventure reazionarie e fasciste. 

I recenti fatti come il successo delle sardine o il voto inglese sono, secondo me, sintomi dell'ambiguità. La politica italiana, ma in realtà la politica mondiale, sta vivendo una crisi semantica, di significati. Per troppo tempo ha detto cose pensandone altre, rappresentata da persone plasticamente non credibili in quando ambiguamente non credibili. Nel migliore dei casi, ma che dico, nel peggiore dei casi si finge di credergli in quanto è l'interlocutore che ha interesse a farlo, essendo esso stesso ambiguo. Il fenomeno del salvinismo è questo ma, per un osservatore attento appare per quello che è: un mentitore seriale che conosce i suoi clienti e si presenta per quello che è. Ma sono, paradossalmente, gli altri che mi inquietano di più.

Sono quelli che si sono sempre professati progressisti, antifascisti, insomma di sinistra. Sono quelli del tutt*, del compagni e compagne, sempre educati, attenti a non offendere. Sono quelli che fanno lunghi post, lunghi discorsi in cui cercano di dimostrarti quanto poco abbiamo capito del presente, ma con educazione. Li vedi sempre li, sempre capaci di sopravvivere a tutt*, a cui non importa minimamente di essere importanti. Per loro è essenziale essere visibili, in qualsiasi modo, e lo fanno sfruttando al massimo la loro ambiguità. Non affrontano mai argomenti divisivi ma fanno surf usando la dialettica e la retorica. Si guardano bene dall'affrontare le radici profonde delle esposive condizioni reali del nostro presente, che li porterebbe alla loro estinzione. Sopravvivenza, pura sopravvivenza. Che è mascherata da cosmopolitismo, diritti civili, navi da difendere. Questo istinto primordiale, prepolitico, ancestrale, viene percepito da tutti gli umani, senzienti o meno, acculturati o meno. E sono odiati. ma a loro non interessa, riuscendo a garantirsi sempre uno zoccolo duro di seguaci che diventano complici consapevoli. Ci chiediamo perchè noi portatori del Credo, della Verità siamo insignificanti? Perchè, qualunque cosa diciamo e facciamo è senza significato, valore e credibilità o meglio, sono vere per chi sta bene. Il bello è che lo sappiamo, ma non ce ne fotte proprio nulla.

Deve crollare la nostra scena, il nostro fondale, in nostro teatro.

 

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Le sardine

sardine 2

Perché il movimento delle sardine ha ragione di esistere.

" le masse dicono allo spazio come deformarsi, lo spazio dice alle masse come muoversi" e, dico io, in una giostra incessante. Questo è, in sintesi, l'essenza della relatività generale. Una implicazione immediata è  che non esiste differenza tra chi sta davanti e chi sta dietro, tra chi sta sul palcoscenico e chi dietro le quinte . Gli attori dell'esistenza non recitano su un fondale dato, perché, semplicemente, il fondale interagisce con la recita, ne è parte integrante. Se gli attori recitano supponendo che il fondale sia fisso ed immutabile, sarà una commedia brutta e, fondamentalmente assurda. Come assurdo è non coinvolgere gli spettatori, organicamente facenti parte della rappresentazione.

Pensavo a questo, arrovellandomi su questo nuovo movimento che solleva dubbi, spiazzamenti e critiche più o meno forti da parte di molti . Molti che si richiamano a valori di ogni direzione, destra, centro e sinistra. Questi ultimi sono molto interessanti, in quanto vertono sulla presunta totale mancanza, delle sardine, di piattaforma politica. Criticano il loro decalogo privo dell'abc dl marxismo-leninismo, del loro trasversalismo qualunquista, del fantasma consunto del meme ' né di destra, né di sinistra'.

Ma trascurano un fatto, che citavo all'inizio. Il palcoscenico. Stiamo recitando su un fondale progettato da altri, distonico ,in cui gli attori, bravi quanto si vuole, con un copione ben fatto, alla fine non riescono a raggiungere il pubblico, che guarda la commedia distratto e poi annoiato. E, che, prima della fine dello show, lascia il teatro. Questa mi sembra una buona metafora, per me, per noi che ci sentiamo di sinistra. Ecco, sentirsi. Abbiamo trascurato il collegamento tra sentimento e realtà. La nostra recita si svolge su un palcoscenico dato, dato da chi ha vinto finora la sfida, quelli dell'altra sponda. Recitiamo stancamente per noi stessi, per un teatro vuoto, i cui spettatori scappati via non hanno più empatia per questi guitti senza passione.  Il deserto dei sentimenti. Esso fa perdere la passione, l'immedesimazione, il rispetto, in una parola la credibilità. Facce stanche e livorose, cariche però di saccente presunzione, portatrici di una verità solo recitata ed anche male.

Tale patologia, perché di patologia si tratta, viene da molto lontano, risalendo alla nostra storia, storia dell' Italia, dove non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo con i nostri demoni personali e collettivi, sempre seppelliti in una discarica di buon senso e vivi e lascia vivere. Ci è bastato fare slalom tra ciò che il palcoscenico ci offriva e, forti della nostra preparazione, duttilità e cazzimma, ci siamo posizionati cercando di minimizzare la nostra angoscia.

Le sardine vogliono rompere questa staticità. Ci stanno dicendo che è indispensabile distruggere non solo il palcoscenico, ma anche il teatro.

 

 

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